VIVI IL CINEMA – L’Incontro: Salvatore Piscicelli torna al cinema con “Il Corpo dell’Anima”

VIVI IL CINEMA – L’Incontro: Salvatore Piscicelli torna al cinema con “Il Corpo dell’Anima”

Gennaio 3, 1999 0 Di Raffaella Ponzo

LA RISCOPERTA DEL MELODRAMMA

Di Manuela Bortolami

E’ un personaggio che osa, Salvatore Piscicelli – regista napoletano – ma con tranquillità, che lui attribuisce all’età, anche se non è così: la sua storia cinematografica – tra gli altri Immacolata e Concetta, Le occasioni di Rosa, Regina – si compone tutta di storie borderline, amori travagliati, quando non del tutto impossibili: qui si conferma. Il Corpo dell’Anima è il suggestivo titolo di una storia d’amore tra un uomo maturo e una giovanissima ragazza, separati però da tutto e uniti solo dal sesso… vicenda quasi d’ordine quotidiano. Ernesto – Roberto Herlitzka, notissimo attore teatrale poco sfruttato dal cinema – è un ricco vedovo borghese, molto colto, sceneggiatore, che fa all’improvviso due incontri, entrambi fondamentali per la sua vita, anche se profondamente diversi: uno spirituale e, in qualche modo di conseguenza, uno carnale.

Il Corpo dell’Anima si può definire un film erotico?

“Assolutamente non solo erotico: chi conosce il mio cinema vedrà che è legato ad un genere che ho già praticato in passato, il melodramma. E’ un genere classico, Tristana di Buñuel, Limelight Luci della ribalta che è forse il più bel melodramma della storia del cinema. Anche Immacolata e Concetta era un melò e contemporaneamente una storia d’amore impossibile, tra due donne, e così pure Regina, dove la forte differenza d’età era a favore dell’uomo, ma qui non ho sviluppato un finale tragico. Questo è un racconto in prima persona, quasi un diario, cosicché tutta la vicenda è filtrata attraverso la sensibilità del protagonista, il suo continuo commentare. E’ la storia di una guarigione di un uomo dalla sua aridità sentimentale: l’incontro spirituale nasce dall’occasione di scrivere una sceneggiatura su Santa Teresa d’Avila, della quale dovrà studiarne la psicologia fin nei particolari. Ma contemporaneamente entra nella sua vita una ragazza di ventidue anni, Luana – l’esordiente Raffaella Ponzo – dalla periferia romana, cameriera, del tutto ignorante e selvaggia, tutta istinto, che pian piano stravolgerà la sua vita, con il suo narcisismo e la sua vitalità. La storia non può quindi avere futuro, troppo distanti i personaggi, non solo per età ma per classe, cultura, e tuttavia alla fine lui capisce che proprio lei gli fa scoprire che ci sono “gli altri”, che ci si può compromettere, che la vita a volte ti stana anche quando hai costruito un equilibrio fatto di sicurezza, comfort, agio. I due si lasceranno per poi reincontrarsi nel momento in cui lui realizza compiutamente il senso dei due incontri”.

Ma allora dove si trova l’analogia con la vita di Santa Teresa d’Avila?

“C’è una sorta di strano parallelismo tra l’ispirazione spirituale che lui coglie in Teresa, da lui letta in maniera laica e non religiosa tradizionale, e questo percorso esistenziale che si accorge di vivere con la ragazza, che lo costringe a rimettersi in gioco, a fare nel suo piccolo e nello specifico, la stessa esperienza che fa il mistico quando, rinunciando al proprio egoismo, è in grado di aprirsi alla fede. In fondo è la storia di una guarigione, di una piccola “via crucis” anche erotica. Io lo definisco scherzando un “melò tantrico”, riferendomi ai mezzi con cui, secondo il tantrismo, corrente dell’induismo e del buddismo, si può arrivare alla illuminazione: e cioè il piacere del bere alcolici, mangiare la carne, il sesso… tutto ciò che solitamente è considerato l’opposto”.

Un film che tratta della diversità…

“Soprattutto della diversità: è la storia di due personaggi che sono diametralmente opposti, li separa un universo intero, e per questo il sesso è importante in quanto sarà il loro primo terreno d’intesa”.

Paradossalmente è anche il terreno più semplice da praticare, o meglio, quello più immediato…

“Ed è anche quello dove la ragazza può in parte pareggiare la differenza tra loro…”

Niente Lolite, niente peccato, solo forza d’amore redentrice. Amore e sentimento proprio come nel più classico dei melò e dunque il melodramma sembra essere la cifra che accomuna le sue opere: che cosa l’attrae di questo genere?

“Le storie d’amore difficili sono le più belle in quanto ci ricordano la nostra vita e il melodramma è sempre stato un genere affascinante per il pubblico proprio per il suo “raccontare i sentimenti”. Ho ancora vivo il ricordo di mia madre, donna del popolo ma amante del cinema, che da piccolo mi portava a vedere i melodrammi di Matarazzo; Luci della ribalta ne è appunto la versione “nobile”. Piacevano a tutti perché rimanevano nel cuore”.

Storia e sceneggiatura sono scritte da lei?

“Sì, la storia è mia, mentre per la sceneggiatura abbiamo lavorato a quattro mani con Carla Apuzzo. La storia doveva essere un racconto per un libro, poi invece ci è sembrata più adatta per una sceneggiatura e abbiamo cominciato a lavorarci. I film devono dare anche materia di riflessione e qui, secondo me ce n’è molta: per esempio sul fatto che il nostro mondo del futuro dovrà aprirsi alla comunicazione con gli altri, ai rapporti interculturali e la coesistenza sarà difficile: in questo senso il film lancia un piccolo messaggio e cioè che le diversità sono tante, anche quelle razziali, e l’unico modo per non rimanere sopraffatti sarà uscire dalle nostre case, dal nostro piccolo mondo visivo. Non serve chiudersi nella fortezza dei nostri paesi ricchi che tanto verrà inevitabilmente espugnata. Questo è raccontato attraverso la piccola esperienza di Ernesto, che pure nel finale del film è un uomo solo, che ha subito gli acciacchi della vita, ma che solo dagli umili avrà infine un conforto”.

Piscicelli ha dedicato gli ultimi anni, oltreché alla naturale riflessione sulla “stupida ubriacatura cinematografica della fine anni ’80 e inizi ‘90”, alla scrittura di racconti, di un giallo per Mondadori, e alla produzione di un film di Carla Apuzzo Rose e pistole, in visione al Forum di Berlino.

Il suo film, prodotto dalla Metropolis, con il contributo del Fondo di garanzia del Dipartimento dello Spettacolo, non potrà però, dato l’argomento, avvalersi di un’uscita televisiva. Arriviamo così alla dolente nota del cine-mondo: la distribuzione.

Vorremmo una sua considerazione su questo, anche in relazione alla tanto citata “rinascita del cinema italiano”: lei ci crede o no?

“Io credo che si siano fatti degli sforzi in direzione della produzione dei film, ma che poco invece sia stato fatto per quanto riguarda la distribuzione e l’esercizio, dove evidentemente c’è una forte strozzatura e fa sì che il cinema italiano non abbia mercato, che spesso film finiti non escano, che è un fatto molto grave. Contemporaneamente penso che ci siano molte energie e molte novità, soprattutto tecnologiche, che spingerebbero ad una apertura maggiore ed a un rinnovamento più profondo, e soprattutto il cinema italiano dovrebbe prendere una maggior consapevolezza anche degli aspetti economici di questo lavoro, senza fare la guerra a nessuno, ma riconquistando invece una parte di mercato che anche in Europa è di dominio americano, rafforzando di più la collaborazione europea. Veltroni ha fatto delle buone cose ma solo nella produzione, che a mio avviso tende a schiacciarsi sui prodotti televisivi perché garantiscono parte dei rientri ai produttori. Un’ipotesi di lavoro, su cui ho trovato molti colleghi concordi, potrebbe essere l’idea di Dogma ’95, produzioni rigorose a basso costo”.

Come si inquadrano nella sua ottica di cineasta le produzioni, prettamente commerciali, come ad esempio i “film-panettone”, anche di bravi autori e attori brillanti, che escono nel periodo natalizio?

“Proprio l’aver iniziato ad amare il cinema in una dimensione popolare non mi farà mai disprezzare questo genere. La mia personale “riscoperta” del mondo dei film, fatta dapprima come cinèfile all’università e successivamente quando ho cominciato a fare critica cinematografica, lo è stata sul piano intellettuale e credo che il cinema non debba mai, per nessun motivo, perdere questa sua “doppia anima”: quella popolare appunto, con la capacità di raccontare storie semplici ed universali che arrivino ad un pubblico ampio – parlo comunque di film seri – e al tempo stesso la capacità di produrre film che possono essere goduti o letti anche ad altri livelli. E poi il cinema è nato come fenomeno di baraccone, nelle periferie urbane, e il fatto che oggi, ancora nelle periferie urbane, sorgano le megastrutture, le sale multischermo, mi rende felicissimo perché è un modo per il cinema di conservare la sua anima popolare. Certo se c’è solo quello il cinema muore, ma il cinema è poesia e commercio insieme e così deve restare. Non sempre si riesce ad avere una sintesi felice ma questo dovrebbe essere l’obiettivo”.

E’ troppo presto per pensare ad un’altra storia? Per esempio il suo giallo…

“Quella è una storia un po’ complicata da realizzare dato che si svolge a Napoli, durante una settimana d’aprile, in cui la città è coperta di neve! Nei campi aperti ci sarebbe qualche difficoltà. C’era in verità un produttore interessato, ed è stato presentato alla Rai, ma il problema è che uno dei temi affrontati è la pedofilia…”.

Un tema drammaticamente attuale, farebbe bene parlarne un po’ apertamente…

“Anche secondo me, ma alla Rai si preferisce non affrontare l’argomento se non nei telegiornali. Ora ho un’altra sceneggiatura pronta per un film in costume, e sto lavorando ad un’altra storia contemporanea a cui tengo molto: insomma ho voglia di ritornare al cinema. Era qualche anno che non giravo e l’ho fatto con una tale concentrazione e piacere, anche per il gruppo di lavoro creato, che mi è rimasto il desiderio di ricominciare subito. In questo lavoro ho la coscienza a posto, credo di aver dato il meglio di me e, come dicono gli indù: non c’è miglior azione di quella che non aspetta ricompensa. L’unico momento reale è quello presente, attaccarsi al passato e rimpiangere ciò che non si è fatto, o costruire castelli in aria sul futuro sono entrambe azioni poco igieniche, perché ti distolgono dall’unica realtà che conta, il presente. Che è poi l’insegnamento anche dei grandi mistici, come Teresa nel film, e del suo allievo San Giovanni della Croce, persone che hanno vissuto esperienze di confine, profondamente mistiche. Anche per loro conta il presente, dove bisogna dar il meglio di sé”.

Qual è il momento che predilige del suo lavoro?

“Un po’ tutti dato che io i film li scrivo, li dirigo e da qualche anno lavoro anche al montaggio. Sono tre fasi completamente diverse: quella della sceneggiatura è molto solitaria e personale, le riprese sono stimolanti per il confronto con gli altri, e dopo il film è a casa che tiri i remi in barca. Mi piace che ci siano i momenti di grande solitudine e di grande confusione in mezzo agli altri, quest’alternanza mi pare salutare”.